Come clima e livello del mare liberano il permafrost costiero Artico
L’erosione del permafrost costiero può liberare grandi quantità di gas a effetto serra, in particolare anidride carbonica e metano, e contribuire all’acidificazione degli oceani. Inoltre, dalla fusione del permafrost dipende la velocità di arretramento costiero e il rilascio di inquinanti come il mercurio.
Un nuovo studio paleoclimatico pubblicato sulla rivista Communications Earth & Environment dimostra come i processi di erosione delle coste artiche possano essere influenzati dal livello del mare, quindi dai cambiamenti del clima, e provocare impatti che si verificano fino a migliaia di chilometri di distanza.
La ricerca ha dimostrato, tramite lo studio di una carota di sedimento marino proveniente dalla scarpata continentale a nord delle Svalbard, l’esistenza di un importante evento deposizionale risalente al periodo caldo del Bølling-Allerød (14,700-12,900 anni fa).
In quel periodo caldo, l’aumento di temperatura e la veloce risalita del livello del mare (circa 18 metri in 500 anni, o 3,6 cm all’anno in media) provocarono un’intensa erosione costiera dei depositi di permafrost chiamati Yedoma, depositi costieri diffusi lungo tutto il margine eurasiatico dell’Artico.
Il team internazionale di ricerca che ha lavorato allo studio ha collegato i due fenomeni, dimostrando come il permafrost eroso sia stato trasportato molto lontano, a migliaia di chilometri di distanza. Il risultato è stato possibile grazie all’analisi dei biomarcatori organici e all’età dei composti di origine terrestre provenienti dalla carota di sedimento marino HH11-09GC.
Le analisi hanno rivelato come la provenienza dei materiali depositati fosse esotica: l’origine del materiale, infatti, si trovava a migliaia di chilometri dalla zona di campionamento.
“Il materiale eroso dalle coste artiche veniva successivamente preso in carico dal ghiaccio marino che si formava lungo le zone costiere, per poi venire trasportato fino al confine fra Oceano Artico e Atlantico. - spiega Alessio Nogarotto, dottorando in Scienze polari a Ca’ Foscari e co-autore dello studio - Lì, il ghiaccio, carico di sedimenti, in larga parte tendeva a fondere, liberando il materiale in esso intrappolato, che era destinato a depositarsi sui fondali a migliaia di chilometri dalla zona d’origine. Questo lavoro ha evidenziato l’estrema suscettibilità dei depositi costieri di permafrost, facendo inoltre luce sulla possibilità di una rimobilizzazione a larga scala durante periodi caratterizzati da rapidi cambiamenti climatici”.
L’analisi dei sedimenti marini rappresenta una macchina del tempo che permette di studiare come il permafrost e clima hanno interagito in passato, in modo da contestualizzare gli attuali effetti del riscaldamento globale antropogenico in un contesto più ampio, che tenga anche in considerazione le oscillazioni climatiche naturali.
Lo studio ha coinvolto ricercatori dell’Istituto di scienze polari del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR-ISP), dell’Università Ca’ Foscari Venezia, dell’Alfred Wegener Institute (AWI), delle università delle Svalbard, di Plymouth, di Cambridge, dell’Istituto di scienze marine del Cnr (CNR-ISMAR) e dell’Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale - OGS, con il supporto del progetto PRA PAST-HEAT (PermAfroSt Thawing: what Happened to the largest tErrestrial cArbon pool during lasT deglaciation) e della collaborazione italo-tedesca CNR-ISP – AWI PAIGE (Chronologies for Polar Paleoclimate Archives).
Immagine: deposito costiero di permafrost di tipo Yedoma in Siberia (foto Thomas Opel, AWI)